Esercizio di Tolleranza

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Ieri ho avuto una strana discussione con la donna che mi sopporta quotidianamente: è venuto fuori che di fronte ai suoi problemi quotidiani (lavorativi e non solo) io finisca spesso per “dare ragione” all’individuo che lei mi presenta come l’autore del contrasto nato fra di loro. Lì per lì ho accusato il colpo, iniziando a pensare che forse io non dia sufficiente importanza a questioni che invece per la mia compagna sono più che problematiche. Poi però, quando le ho chiesto di farmi degli esempi concreti, pronto a scusarmi, ho cercato di capire come avrei reagito io a situazioni invertite, ed ho notato che quasi nessuno di quei casi sarebbe stato per me un problema tale da rovinarmi la giornata o anche solamente in grado di irritarmi.

Ho cercato così di spiegarle il motivo del mio atteggiamento da bastian contrario (quel famoso “dare ragione agli altri”): immaginiamo una scala della tranquillità che vada da 1 a 10, dove 1 significa che la persona è agitatissima e 10 sta per la pace zen. Ora, se in una coppia uno dei due partner è “tranquillo 2” la coppia ne risentirà sicuramente dato che, per quanto possa essere sereno il compagno (anche ammesso che sia “tranquillo 10“), la brutale media matematica ci dice che la tranquillità di coppia si aggira intorno al valore 6 (tale media non è altro che un grossolano tentativo di definire la regola empirica secondo la quale se un membro di una coppia sta male, anche il partner finirà per stare peggio di quanto in realtà starebbe se fosse single).
Ammesso ciò, cosa può fare il partner più tranquillo per cercare di innalzare il livello di tranquillità di coppia? Visto che è molto difficile migliorare la propria situazione (la scala della tranquillità si ferma al 10!) non si può fare altro che cercare di innalzare il livello di tranquillità del partner angosciato, provando a mostrare che molte delle dispute che quello ha vissuto in maniera così personale, così negativa, non siano poi così importanti (i famosi “Ma che te ne frega?!?”) o che, diversamente, esista la possibilità che sia stato proprio il partner ad aver avuto torto in alcuni episodi (l’altrettanto famoso “Dare ragione agli altri”).

Senza scendere nei particolari dei singoli episodi, qual è il punto?

Il punto è che se una persona tranquilla-10 riuscisse (dialogando) a far passare il proprio compagno da un livello di tranquillità pari a 2 ad un livello di tranquillità pari a 6 (cioè nient’altro che la sufficienza!) si otterrebbe una tranquillità di coppia pari a 8!! Certo, si può sempre provare ad innalzare il livello di tranquillità del proprio partner con una sessione di attività fisica sotto le lenzula ma poi, i giorni seguenti, la questione non risolta riciccerà fuori immancabilmente, costringendo i due partner a fare l’amore non perché fare l’amore è bello, ma perché è l’unico modo per andare a dormire sereni… cosa che non trovo affatto positiva, tra l’altro: il sesso sicuramente ci distrae dai problemi, ma è il dialogo l’unico strumento efficace per (tentare di) risolverli in maniera duratura. O, almeno, così la vedo io.

E le buone notizie non sono finite qui! Incidentalmente, infatti, ho notato che il procedimento che seguo quando (fastidiosamente) “do ragione agli altri” è esattamente quello di provare a dar loro ragione! Mi spiego meglio: quando c’è una situazione di conflitto che mi riguarda, e che non mi veda palesemente dalla parte del torto (o della ragione), quello che solitamente provo a fare è di assumere come ragionevole la posizione del mio interlocutore e di provare ad andare indietro nella ricostruzione delle motivazioni che l’hanno portato a comportarsi in un certo modo nei miei confronti. Diversità di cultura, di condizione sociale, di educazione, di genere, di età, di salute… sono tutte “variabili” da tenere in considerazione quando cerchiamo di razionalizzare i motivi che hanno portato due persone a discutere/litigare/ammazzarsi.

Ed è a questo punto che sono arrivato ad una felice conclusione, sulla quale non mi ero mai soffermato: credo cioè che “essere tolleranti” significhi proprio applicare costantemente la strategia di cercare di dar ragione agli altri!

È chiaro che poi non sempre si riesca a mettersi nei panni del proprio interlocutore (“Come faccio a dare ragione ad un individuo spietato e sanguinario, colpevole di crimini efferati?!?), ma fortunatamente quei casi sono rari: molto più spesso capiterà di analizzare una vicenda in cui c’erano realmente dei buoni motivi da entrambe le parti per sostenere le proprie posizioni… Quel che può succedere, alla fine della storia, è che spesso si arriverà a valutare la nascita di un conflitto non sulla base dell’altrui stronzaggine, ma più serenamente sulla base dell’altrui diversità, il che renderà immediatamente più digeribile l’amaro boccone, e forse meno lontana una concreta (e forse pacifica) risoluzione.

E, come ultima cosa, mi viene da pensare che forse questo modo di vivere è anche il motivo per cui quelli come me vengono percepiti dagli altri come “quelli che si lasciano scivolare tutto addosso”, “menefreghisti”. No, non credo che si tratti di menefreghismo; credo piuttosto che sia un benefico esercizio di tolleranza e, volendo darmi la zappa sui piedi da solo, mi viene in mente un’ultima domanda: non è forse proprio questo atteggiamento il bersaglio del comunissimo detto “Prenderla con filosofia” ?!?

Lettera a me stesso

Caro Luca,
chi ti scrive è il te stesso giovane, eppure vecchio di 26 anni, come direbbero gli inglesi.
Ti scrivo perché temo che anche tu, come la maggior parte della gente (“laggente” è stupida, si sa), non sia stato risparmiato dal cancro dell’età adulta, della cosiddetta maturità. Non che sia sempre bello restare a vivere tra le nuvole, senza rendersi conto di niente, ma ogni tanto arrestare la realtà e compiere un’incursione nei territori della fantasia, dell’irrealtà, non può che fare bene: “Chissà come sarebbe il mondo se…” Quand’è l’ultima volta che ti sei soffermato a pensare ad una domanda di questo tipo? Mi auguro che non sia passato troppo tempo, ma temo che non avessi ancora compiuto 40 anni l’ultima volta che ci hai riflettuto seriamente. Chiaro: non che tu avessi realmente potuto dirigere le sorti del mondo in quella direzione, ma intendo almeno di non arrendersi al fatto che
“E’ stato sempre così e sarà così per sempre”.
Quella, cazzo, è la morte di tutto.
Scusa se parlo da solo, dando per scontate le tue posizioni, ma capisci che non mi è facile aspettare le tue risposte e quindi mi baso su quello che vedo oggi del mondo “degli adulti”… prendi tutte le mie parole con le pinze, che anche a 26 anni si può sbagliare, non lo nego. lol
Per andare un po’ più nello specifico, non credo che tu sia sposato (ma se l’avessi fatto con rito civile, per ottenere i grandiosi vantaggi che il nostro bigottissimo stato concede solo alle coppie de iure, e non di fatto, non potrei biasimarti) ma spero che nonostante tutti i tuoi numerosi difetti abbia comunque trovato una compagna (o compagno? Hai smesso o no di tentare di scoprirti bisessuale?) con cui condividere pensieri, parole e carne. Anzi: carne, pensieri e parole. Anzi: parole, carne pensieri e gesti… vabbè, insomma, ci siamo capiti.
Spero anche che tu non ti sia lasciato andare ad una passiva vita di lavoro-stress-violenza-riposo(poco)-lavoro-stress-violenza… and so on. Magari nonostante gli esempi della tua famiglia (soprattutto di uno dei rami) sei riuscito miracolosamente ad evitare la parte “violenta” di quel ciclo, ma ne dubito fortemente: violenza porta violenza, si sa. Spero di no, ovvio, sia per te sia per chi ti sta intorno, ma lo temo fortemente. È una strada che vedo disegnata chiaramente davanti ai nostri (miei e tuoi) passi, e temo che non saremo così bravi da riuscire ad abbandonarla. Chissà se qualcuno dei “Luca Abboni” che verranno tra il me stesso 26enne e il te stesso 50enne sarà stato in grado di cambiare direzione… speriamo bene.
Tornando alla questione che mi preme, ho solo un monito da farti (infatti credo una lunga sequela delle cose che potresti aver sbagliato in questi 24 anni risulterebbe pedante e mancherebbe il bersaglio). Un monito, dicevo, che suona così (a proposito, da quant’è che non guardi uno dei cartoni che per anni hai detto di essere a fondamento del tuo carattere fantasioso?):

“Simba, mi hai dimenticato. […] Hai dimenticato chi sei e così hai dimenticato anche me. Guarda dentro te stesso Simba, tu sei molto di più di quello che sei diventato”

Questo era il rimprovero di Mufasa al figlio, dirai tu, quindi che un 26enne lo rivolga ad un 50enne è completamente fuori luogo, ma stammi a sentire: inizia pensando al fatto che il “te stesso” 26enne (cioè chi scrive) è presente nel mondo da moooolto prima del “te stesso” 50enne, quindi è come se il rimprovero venisse da una persona più anziana, con più esperienza. That’s it. È una sorta di paradosso, ma non temere: sei laureato in fisica e puoi venirne a capo da solo, con un po’ di ironia (ad ogni modo, ricorda l’illusione del trascorrere del tempo e il discorso sulla simultaneità degli eventi e sul cono di luce… queste nozioni ti possono aiutare a dare un senso reale, fisico, a quello che ti ho appena detto, nel caso in cui il senso ironico non fosse sufficiente).
Ora, con uno slancio di telepatia intrapersonale sebbene extratemporale, provo ad ascoltare quello che stai pensando mentre rileggi queste parole (vediamo se ci sono andato vicino):
“Ah, ma guarda un po’ quanto ero imbecille a 26 anni… credevo già di sapere tutto”
Senza dilungarmi oltre nello specificare i motivi per cui anche tu, come tutti, a 50 anni ti senta “più maturo” di quando ne avevi “solo” 26, ci tengo però a farti riflettere sul fatto che il te stesso 26enne si era promesso di non dimenticare quanto fosse strana e difficile la vita, AD OGNI ETA’: un bambino ha problemi diversi da quelli di un adulto, ma non meno importanti. Certo, meno importanti per la società, per la statistica, per l’economia… ma sticazzi di tutte queste cose: la sofferenza è sofferenza, e mentre credo che bisogna cercare di imparare qualcosa da quella inevitabile (una storia d’amore che finisce), credo anche che bisogna cercare il più possibile di evitare quella inutile, e quindi dannosa (la violenza domestica, tanto per fare un esempio).
Soffre il bambino per un regalo di Natale sbagliato, soffre l’adolescente che non si sente accettato, soffre il ragazzo per la mancanza di comprensione da parte dei genitori, e soffre anche l’adulto per la mancanza di alternative e di illusioni (ripensa al GameBoy, alle scuole medie, ai tuoi genitori, nel caso non avessi capito che mi stavo riferendo a tue sofferenze passate…). Tutti loro stanno soffrendo esattamente quanto possono soffrire, anche se un adulto riuscirà senz’altro ad esprimere meglio (almeno a parole) il suo dolore di come lo possa fare invece un bambino piangendo fiumi di lacrime… o mi sbaglio?
Cosa esprime, alla fine dei conti, maggiore sofferenza? Un pianto disperato o un monologo drammatico? Tutti conosciamo la risposta.
Un altro punto che mi preme verificare: hai mantenuto fede al tuo tentativo di essere il più comprensivo possibile? Cerchi sempre di metterti sullo stesso piano del tuo interlocutore? O almeno su un piano dal quale i problemi altrui vengano valutati col giusto peso, senza proporre inutili paragoni e confronti fastidiosi?
Spero proprio di sì, caro mio.
Matteo, Damiano e Carlo ti vogliono ancora bene, oppure li hai esasperati a tal punto che ti hanno abbandonato anche loro? Non lo credo possibile, a dir la verità, ma non si sa mai con te… magari ti sei messo in testa che frequentare per troppi anni le stesse persone ci rende stupidi e così li hai volutamente lasciati da parte… che ne so.
Quand’è l’ultima volta che hai telefonato (smessaggiato, uozzappato, skypato) a tua sorella? Da quant’è che non fate una smorfia insieme, fotografandovi e beandovi della vostra reciproca idiozia? Ti prego, dimmi che questo lo fai ancora, ti prego.
Mannaggia alla madonna (tanto così, per ricordarti che bestemmiare è una cosa come un’altra, e non c’è da far del moralismo sulle parole) più vado avanti e più mi vengono in mente solo errori che potresti aver commesso, e cose comunque non buone.
Aspetta un attimo, ci voglio provare. Anche tu, in fin dei conti, meriti di non essere dato per “perso” fin da ora… fammici provare: nella migliore delle ipotesi mi ti immagino circondato di amici (nonostante il lavoro), con una certa stabilità economica (non ricco, intendiamoci, ma almeno in grado di assicurare ai tuoi figli, se ne hai, TUTTO quello che avresti voluto alla loro età e che a 26 anni reputavi doveroso dovergli assicurare), felicemente sistemato (in due, in tre, vedi tu) e stimato dai colleghi.
Come vedi non ci vuole molto a pensare alle cose belle, ma questa lettera deve essere un monito, una spia che segnali che potrebbe esserci qualcosa che non va: se poi si verifica che la spia è guasta, tanto meglio, ma se invece il suo lampeggiare sta ad indicare un problema reale, beh… vedi tu.
Spero il meglio per te, caro mio, ma temo il peggio.
Dimmi che mi sono sbagliato.

“Ricordati, chi sei! […] Ricordati chi sei!”

Breaking Bad, recensione negativa

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Niente, ieri ho deciso di smettere di guardare Breaking Bad e su internet non si trova una recensione negativa manco a pagarla… sembrano (sono) tutti pazzi per questa serie “praticamente perfetta sotto ogni aspetto” (come direbbe Mary Poppins)… Ok, d’accordo, forse non ho capito un cazzo io, ma provo a sintetizzare qua sotto le ragioni per cui BrBa non mi ha entusiasmato affatto.

[nb: la mia critica si applica fino alla fine della terza stagione (chiaramente in lingua inglese), poi ho mollato]

BrBa è senz’altro una serie che in un modo o nell’altro colpisce lo spettatore, tanto il patito di serie TV, quanto il neofita: non per il sangue gratuito (vedi Dexter) o per le scene di nudo spinto (vedi Games of Thrones), ma per l’aria che si respira. Un’aria di novità che fin dalle prime inquadrature lascia spaesato l’abituale spettatore, che continua a non sapere se spegnere lo schermo borbottando uno stizzito “Ma che merda è?!?”, oppure se continuare ad andare avanti nell’ottica del “Vediamo che succede”. E le cause di tale disagio sono evidentissime: la regia, altamente cinematografica, e la recitazione magistrale di Bryan Cranston annunciano che sarà una serie diversa dal solito, lo urlano fin dalle prime inquadrature. Ma perché dico “disagio” allora? Lo dico perché tutti (anche i fanatici di BrBa) hanno dovuto mandare giù a fatica le prime puntate e di fronte ai dubbi che sollevavo erano soliti rispondere con un rapido “Va avanti, concedigli tempo e vedrai”. Normalmente avrei sfanculato immediatamente una serie alla quale “concedere tempo” ma il consiglio mi veniva da più fonti, tant’è che mi convinsi di continuare. In più, nella mia testa prendeva forma l’idea che il motivo per cui questa serie molto cinematografica tendesse a rallentare terribilmente il succedersi degli avvenimenti fosse dovuto al fatto che a differenza di un film, che in due ore e mezza deve iniziare e finire, qui ci fosse “il tempo di prendere tempo”, di godersi il viaggio, senza dover andare subito al punto, alla meta. Ok, questo mi sta bene. È una scelta azzardata, ma se riesci a tenere alta la mia curiosità ben venga. Pollici su. È come se fosse uno studente con grandi doti, oppure uno sportivo con molto talento: diamogli tempo e fiducia, e saprà ricompensarci.
Lasciatemi ora un momento per aprire e chiudere una parentesi sulla regia che, anche se sbandierata ovunque, resta il punto di forza di questa serie: una regia raramente banale, che continua a convincere lo spettatore di essere al cinema a guardare un lungo film, forse un po’ lento, ma girato benissimo.
Poi c’è lui, Bryan Cranston, che come centro dell’inquadratura non perde un colpo: pochi cazzi, il professor White non è solo il cuore di BrBa, ma ne impersona anche il cervello, i polmoni (soprattutto), la struttura scheletrica, l’apparato muscolare…l’intero organismo. Togli Walter Fucking White e crolla tutto.
E fin qui siamo tutti d’accordo, non si discute. Ma allora dov’è il problema?
Il problema è che quando fai delle promesse, anche tacite, poi le devi mantenere. E se le tue promesse sono del tipo “a lunga scadenza”, della serie “Zitto e goditi il viaggio, che ci sono un sacco di cose da vedere prima della meta”, poi non mi puoi far fare one thousand miles di strada sterrata in mezzo ad una campagna tutta uguale. Un po’ va bene, ma poi mi rompo il cazzo (vediamo chi non coglie l’ironia): non è cattiveria, è proprio noia. Bella la campagna del New Mexico, per carità, ma dopo un po’ rompe il cazzo. Realistici i 3 minuti a puntata in cui Walter tossisce e sputa sangue, per rendere l’idea del dolore e della sofferenza, ma dopo un po’ anche loro rompono il cazzo. Ho sentito tossire più volte Walter White che mio nonno, che è morto davvero di cancro ai polmoni (si alzava dal letto solo per fumare, lui).
Questa, per quanto mi riguarda, è la prima critica: una serie talmente noiosa che se non fosse per la qualità della regia e la bravura del protagonista non sarebbe durata manco 3 puntate. Invece quelle due caratteristiche tengono su tutta la baracca… e va bene, ci sto. Un po’ interdetto, ma continuo a guardare puntata dopo puntata le disavventure del professor White.
Prima di scendere nel dettaglio (ho la spia rossa che mi segnala che sto per accollarmi, fate attenzione!) solo un appunto sul resto del cast: bravo il figlio, ma (fortunatamente) marginale, eccellente la moglie, anche se un po’ troppo gelida… ma per il resto il nulla cosmico. Il cognato è una macchietta, il tipico americano del sud pieno di sé che tutti disegnerebbero così: è come se avessero inserito un italiano coi baffi, che parlasse solo di pastasciutta, e con un’immotivata passione per l’Opera… MA CHE DAVVERO?!? e questa è solo la punta dell’iceberg degli innumerevoli cliché di cui questa serie è farcita e che, ahimé, me l’hanno fatta detestare. La moglie di questo signore (la sorella di Skyler) è migliore, ma non incide sulla storia… e infine l’avvocato, Saul, sul quale stendo un velo pietoso. Un’altra macchietta da fumetto, più che da cinema: messo lì per far ridere, troppo sputtanato come personaggio “senza scrupoli” e troppo caricaturale per essere di sostegno alla credibilità della narrazione (e dico questo proprio perché la maggior parte dei fanatici di BrBa nominano “La credibilità” come il primo di una lunga serie di pregi). Non mi dava così fastidio un personaggio gratuitamente comico dai tempi di Gimli, nell’adattamento cinematografico (per il resto eccellente) de Il Signore degli Anelli.
E parlando di cliché e macchiette come posso non soffermarmi sulla sequela interminabile di “Yoo bitch!” che pronuncia Pinkman?!? Come ogni buon fattone che si rispetti, no?!? Boh, forse… io però ne ricordo un altro di fattone che si esprimeva più o meno così, ma devo tornare con la memoria a Jason “Jay” Mewes, di Clerks: quello, però, era un

clerks
personaggio pensato APPOSTA come macchietta, marginalissimo ai fini del racconto e chiaramente ironico.
E ora che succede? Digerito questo, direte voi, il più è fatto: la serie dovrebbe apparirmi un capolavoro. E invece, per riprendere la metafora di prima, mi da sempre più l’impressione di essere uno studente con del cervello ma che passi tutte le sere a “discutere” di calcio (virgolette d’obbligo), o di un atleta da campionato che manchi puntualmente gli allenamenti per giocare ai videogames… Perché?!? Questa è la domanda che mi ha perseguitato per tutte le puntate che ho guardato di BrBa: “Perché?!?”
Gli sceneggiatori continuano a commettere scivoloni senza alcuna giustificazione, che prendono a mazzate la storia ottenendo forzature che lo spettatore manda giù controvoglia (o almeno dovrebbe).
Ma scendiamo un po’ più nel dettaglio, così capite a cosa mi sto riferendo:
!!! SPOILER ALERT !!!

1) Pinkman, pistola alla mano, entra in casa dei due tossicodipendenti (che, ricordiamolo, hanno appena ammazzato un cassiere per derubarlo) minacciandoli di restituirgli la roba, e quelli ad un certo punto riescono a disarmarlo. Appena vista ‘sta scena ho pensato: “Vedi che bello? Mo ammazzano il co-protagonista e sprofondano Walter in un abisso sempre più nero”… e invece che succede? Che la tossica schiaccia la testa del marito sotto un bancomat, uccidendolo a sangue freddo e quando niente le impedirebbe di sparare a Pinkman, decide invece di non farlo… ma perché?!? E guai a chi mi dice “Perché si dovevano far aiutare ad aprire il bancomat”… quella è la giustificazione INSENSATA che hanno pensato gli sceneggiatori: voi potete accettarla passivamente, come accettereste qualsiasi cosa priva di importanza, o riflettere se avesse senso o meno. E non ce l’ha. Per nessuna ragione. Oppure trovate una giustificazione nel fatto che fosse “strafatta”?!? Quindi siete quel tipo di persone che pensano che se ti prendi un acido poi devi per forza provare a buttarti giù da un palazzo per vedere se davvero sei in grado di volare…
2) Pinkman viene nuovamente accolto a casa dei genitori e si prende la colpa dello spinello del fratellino, pupillo della famiglia (i due fratelli avevano avuto anche un bel dialogo sul rapporto genitori-figli). E poi che succede? Succede che giustamente viene cacciato di casa, per l’ultima volta, e che prima di andarsene getti via lo spinello al fratello, che gli aveva chiesto gentilmente di restituirglielo. Ma perché?!? ripeto: PERCHE’?!? Lui è un produttore di metanfetamine, vive da sempre a contatto coi tossici, e dovrebbe conoscere perfettamente la differenza tra la marijuana e le droghe pesanti… dovrebbe farsi burle di chi pensi che “Si comincia coi cannoni, e poi si passa all’eroina”… e invece la sceneggiatura strizza l’occhio agli americani moralisti e repressi: il protagonista è un Bad-Boy di prim’ordine, che produce metanfetamine e non si fa problemi a girare armato (d’altronde siamo negli U.S.A.), ma che si rifiuta di restituire al fratellino (primo della scuola sia per quanto riguarda i meriti accademici che nello sport) il suo innocuo spinello. Un comportamento che mi aspetto da mia madre, che non ha mai fumato uno cannone in vita sua, piuttosto che dal braccio destro di un produttore di metanfetaime. Senza parole.
3) Vogliamo parlare della conclusione della seconda serie? La più grande presa per il culo della storia delle serie TV ai danni degli spettatori? Una stagione di promesse finite in burla: come se, e scusate se ci torno ancora una volta, dopo un viaggio di 1000 miglia in aperta campagna il papà avesse annunciato “Ecco, siamo arrivati” e i figli, scesi entusiasti dalla macchina, avessero trovato ad aspettarli non Disneyland, ma un bar sfigato in mezzo alla strada: “Dai scherzavo, non ci andiamo mica a Disneyland”. Ma che scherzo è, Cristo santo?
4) Dialogo tra Walt e Pinkman all’ospedale, dopo che il ragazzo è stato appena picchiato da Hank. Rendiamoci conto di quanto duri quel dialogo (troppo lungo e troppo melodrammatico, troppo carico) e soprattutto di cosa si urlino addosso i due protagonisti, in un ospedale… come se nessuno li sentisse sbraitare nel pieno silenzio della notte… e manco un’infermiera che entrasse a dire “Oh, zitti un po’, che la gente dorme a quest’ora!”
5) La puntata della mosca. Interamente. Un’ora rubata alla mia vita… ma ho motivo di sospettare che questa sia una puntata memorabile per i fanatici di questa serie TV. Una delle massime vette di intrattenimento cinematografico e una delle più riuscite descrizioni del mutamento del carattere del protagonista. Di nuovo, “Perché?!?
Ok, mi fermo. Non ho intenzione di continuare ad elencare gli altri scivoloni, ma un’ultima cosa la devo assolutamente scrivere o rischio di non dormire stanotte, colpevole di non aver confessato tutto.
Se la domanda che più di tutte mi ha accompagnato durante la visione di BrBa è stata un deluso “Perché?!?”, l’espressione che più di tutte mi ha perseguitato è stata un amareggiato “Non ci credo che l’hanno fatto…” A cosa mi riferisco? All’utilizzo copioso dei cliché, la morte del cinema.
6) Come detto sopra, i personaggi secondari sono tutte macchiette da fumetto, esagerati, caricaturali, poco credibili (e mentre la cosa non mi dispiace affatto in una serie ironica come Scrubs, o Boris, qua è completamente fuori luogo, data la pretesa di credibilità e lo sventolato iperrealismo).
7) Pinkman si è appena trasferito nella casa con la bonazza mora, ex tossicodipendente, e la puntata precedente si chiude con un annunciato rapporto sessuale. Infatti nella puntata successiva la telecamera parte dalla sala e, inquadrando i vestiti tutti sparsi lungo il pavimento, si muove verso la camera dove troviamo i due attori a letto. Questo è un cliché, mannaggia i santi: un fastidiosissimo cliché. Senza contare che lei indossa ancora il reggiseno (e vabbé, passi: è una serie da prima serata) e che poi, quando si riveste, lo fa rimanendo in piedi accanto al letto: come cazzo fa a rivestirsi se mi hai appena fatto vedere che i suoi vestiti sono sparsi fino in sala? (e qui apro e chiudo sugli errori di sceneggiatura, che ok… ci stanno: mi fanno incazzare, ma può succedere).
8) Inizio terza stagione: i sicari gemellini, inamidati e pacchiani, non dicono una parola e continuano a comportarsi come ogni bambino si immaginerebbe un sicario messicano. Non contenti della loro drammaticità fanno esplodere un camion e, sorpresa sorpresa, l’inquadratura li riprende allontanarsi impassibili, con l’esplosione alle loro spalle. Non si vedeva da “Fuga da Los Angeles” credo. Che tristezza.

Ok, *anf anf*, ho finito… scusate le sfogo.

Aspetto qua sotto, nei commenti, chiunque avesse voglia di spiegarmi dove ho sbagliato.

ps: ecco l’unico significato che per me continua ad avere la parola “BrBa”:

Figlio d’arte? No grazie

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Due strade divergevano in un bosco, ed io
io presi la meno battuta,
e di lì tutta la differenza è venuta
Robert Frost, The Road Not Taken

Così, a prima vista, l’idea del figlio d’arte rievoca solo sensazioni legate alla tradizione, alla passione familiare, alla serietà, al tramandarsi qualcosa di speciale di generazione in generazione… come una sorta di certificato di garanzia, una specie di prodotto della terra col marchio DOC, che come ben noto sta per “Di Origine Controllata”.
Basta una sguardo un attimo più attento per poter vedere chiaramente come stanno le cose: serve solo scostare la tendina quasi trasparente per permettere ai nostri occhi troppo pigri e incanalati per poter vedere distintamente di che si tratti.
Per un alimento, o una merce generica (sia esso vino, formaggio, o una particolare varietà di tabacco), poter mostrare il proprio marchio certificato è chiaramente una garanzia di qualità: esso indica che nonostante il mutare dei tempi e il passare delle generazioni il prodotto ha mantenuto intatto il suo sapore originario, quello che lo ha reso non comune e ricercato.
Al contrario, dovrebbe essere evidente che per una persona in carne ed ossa risulti quanto meno svilente dover esibire il proprio certificato di origine controllata: esso non è garanzia di qualità ininterrotta, ma di qualcosa di molto più amaro, molto più pigro e egoistico. Indica cioè che io, genitore, sono stato talmente miope e noncurante che mio/a figlio/a non è riuscito/a a fare altro che a percorrere il sentiero che già io avevo aperto nel meraviglioso giardino inesplorato delle vita:
Io sono la guida e so per esperienza come si attraversa indenni questa luogo. Vieni dietro di me, e non avrai nulla da temere. Stammi dietro, metti i piedi dove li ho messi io, e non ti farai male”.
Non suona terribile?
E anzi, se posso provare a spingere ancora più a fondo la mia critica, vedo la situazione ancora più drammatica di quella appena descritta: la frase appena inserita tra virgolette sarebbe l’equivalente di un padre che avesse vissuto la sua vita e che poi, dopo essere tornato indietro, avesse condotto la propria progenie verso una meta già visitata… e invece non è affatto così: normalmente (questo è un figlio d’arte) l’iniziatore della tradizione (cioè il maestro e artista) è talmente preso dalla propria vita, dalla propria esplorazione del rigoglioso giardino delle possibilità, da trascurare completamente di curarsi del/della bambino/a che ormai lo segue, che arranca lungo le sue orme troppo distanziate, troppo frettolose e troppo prese dalla scoperta del mondo.
Il figlio si trova così abbandonato a sé stesso, troppo piccolo per capire che quell’immenso giardino non può nuocergli, ma che può solo mostrargli le sue meraviglie, celate dietro ogni cespuglio (apparentemente) tetro e intricato.
In questo modo passano gli anni, passano le stagioni della vita, e il figlio si trova a riconoscere il genitore solo tramite l’arte per il quale la fetta di società alla quale appartiene gli porge da sempre il proprio plauso. Così, un po’ per voglia di imitare (chi non vorrebbe imitare lo stile di vita che ha reso “artista” il proprio maestro?), un po’ per la mancanza completa di altri stimoli, il/la figlio/a si ritrova troppo grande, a percorrere in solitaria un percorso marcato sempre meglio, sempre più inquadrato, sempre più difficile da abbandonare in nome dell’ignoto. E’ semplicemente in questo modo che si diventa figli d’arte, ovvero fallimentari tentativi di replicare ciò che il proprio genitore ha mostrato di essere per davvero, chiaramente sotto la spinta delle proprie pulsioni e delle proprie esperienze (più o meno irripetibili).
I figli d’arte sono quindi testimonianza che la poca attenzione che i genitori hanno rivolto loro li ha portati a non sperimentare niente che non fosse già stato provato, e ad accontentarsi di cercare di replicare il successo degli artisti, dei genitori, impresa a dir poco impossibile (quanti figli d’arte hanno superato i loro maestri? Si contano sulle dita di una mano mutilata).
I figli d’arte, in definita, possiedono sì il marchio DOC, ma il significato è completamente differente e sta per “Di Origine Costretta”. E proprio per questo un genitore dovrebbe essere immensamente felice che il/la figlio/a si dedicasse a qualcosa di completamente differente rispetto a quello che ha tenuto occupato lui per tutta la vita: significherebbe che nonostante tutto, nonostante tutta la fatica fatta per attraversare le meraviglie e le avversità dell’immenso giardino, il genitore sia ancora in grado di capire che la sua non è stata altro che una delle infinite vie verso la felicità, verso la meta.
Nella vita (e questo lo sanno tutti) quello che conta non è la meta finale, che è la medesima per tutti. Nella vita quello che conta è il percorso e percorrere una strada già battuta è, quantomeno, triste.

Contro il nichilismo

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Non basta godersi la bellezza di un giardino, senza dover credere che ci siano le fate in un angolo?
(DNA, Douglas Noel Adams)

Da quando ha cominciato a porsi domande su di sé e sul mondo che lo circonda, a formulare ipotesi e risposte, l’uomo si è sentito sempre centralissimo nella spiegazione della realtà: tutto quanto è stato studiato e catalogato secondo gli schemi che gli risultavano più intuitivi, naturali. Per Aristotele le categorie con cui l’uomo catalogava il mondo erano proprie del mondo stesso, eterne e immutabili, universali e l’uomo si limitava a muoversi all’interno di esse. Basandosi sull’interpretazione “cattolica” di Aristotele (banalizzo un po’, scusatemi) l’essere umano (soprattutto quello europeo) si proclamò culmine del creato e questo si riflesse su tutte le costruzioni teoriche che lui stesso mise in piedi: pose sé stesso come vetta ultima della vita naturale, unico tra gli animali ad essere dotato di ragione, e si collocò al centro dell’universo, padrone unico di filosofia, scienza ed etica.

Poi qualcuno cominciò a scardinare questa convinzione, questo modo di pensare, e consegnò ai suoi simili nuove e potentissime chiavi di lettura della realtà, mostrando quanto poco “centrale e necessario” fosse il nostro ruolo nell’Universo. E il tutto avvenne con estrema rapidità: come una diga che a partire da una piccola frattura inizi a perdere acqua e finisca con lo sfracellarsi in pochi secondi. Confrontata con il tempo in cui la diga aveva retto il peso del liquido che la sovrastava, la sua ceduta è sempre questione di attimi, e sorprende tutti. Allo stesso modo, dopo i millenni passati a considerarsi il centro di tutto, il processo di discesa dell’uomo dal suo piedistallo è durato poco, pochissimo, e ha preso alla sprovvista tutte le culture che avevano contribuito ad innalzarlo, nessuna esclusa. Nessuna cultura era pronta per accogliere a braccia aperte il cedimento di questa diga, la diga del “siamo gli esseri più importanti dell’universo”.

Non solo Copernico ci mostrò che il nostro pianeta non si trova affatto al centro delYouAreHereMilkyWayGa cosmo, ma oggi sappiamo che non lo è nemmeno il nostro Sole (una stella di dimensioni medio-piccole, per giunta), e men che mai lo è la nostra galassia: ci troviamo sospesi in un punto casuale dell’universo, senza alcuna caratteristica che lo renda speciale, in un modo o nell’altro.
Qualcuno poi ricorderà che le categorie che Aristotele aveva collocato fuori di noi, universalizzandole, Kant le spostò all’interno della nostra mente (proprio questa fu la sua rivoluzione copernicana, dopotutto): i nostri giudizi sul mondo, ci dice Kant, sono basati sul modo particolarissimo in cui lo percepiamo e quindi risulta evidente che non possiedano alcunché di universale, ma sono limitati alla nostra specie. Un essere che percepisse il mondo in maniera diversa, arriverebbe a giudizi diversi.
Poi arrivò Darwin a svelarci che non solo la nostra specie non è l’inevitabile conclusione di un glorioso processo di ascesa, ma che è semplicemente il risultato casuale di milioni di anni di selezione naturale mischiati a contingenze climatiche e geologiche.

E’ precisamente così, esatto: avremmo potuto benissimo non esserci, e all’universo non sarebbe cambiato nulla.

Niente.

Più le nostre conoscenze si sono fatte scientifiche, organiche, e più capiamo che fino a ieri non avevamo capito un cazzo: è proprio a questa presa di coscienza che i testi accademici fanno riferimento con la parola “antropocentrismo” (o con l’espressione “proiezione antropocentrica”), ma solo perché i libri accademici non sono soliti contenere parolacce. Per far capire bene quello che stanno intendendo, dovrebbero limitarsi a dire “…questo significa che non avevamo capito un cazzo”. That’s all.

Poi è stata la volta di Einstein, venuto a dirci che il tempo e il suo scorrere non sono assoluti, ma relativi. In altre parole lo scorrere del tempo dipende dalla velocità di chi osserva, e che quindi due eventi possono risultare simultanei per un osservatore e non simultanei per un altro in moto rispetto al primo: e quindi? che significa? Significa che se non si può più distinguere in maniera univoca cosa avviene “prima” e cosa avviene “dopo”, come facciamo ad essere sicuri che un fenomeno sia “causa” e un altro fenomeno sia “effetto”? Crolla il concetto di causalità assoluta.
E infine Planck e l’interpretazione di Copenaghen, che ci spiazzano definitivamente mostrando che la natura stessa del mondo atomico risponde in maniera diversa a seconda di come lo studiamo: se architettiamo un esperimento per mostrare la natura corpuscolare degli atomi, scopriamo che si comportano come corpuscoli… e, simmetricamente, se ci ingegniamo per mostrare la loro natura ondulatoria ci sorprendiamo a scoprire che essi si comportano anche come onde (è proprio questo il famoso dualismo onda-particella). Quindi non c’è proprio più niente di oggettivo, nemmeno il mondo esterno a noi: a seconda di come lo studiamo* il mondo dipende sempre dall’osservatore.

Non c’è via di fuga dal relativismo: pare che la Verità (quella con la V maiuscola) non possa esistere. Almeno non quella che avevamo tanto a cuore, quella assoluta.

Ora, e arriviamo finalmente al vero motivo di questo articolo, vediamo cos’è successo DOPO questo risveglio (che dire “brusco” è dire poco): in meno di 4 secoli, con le nostre stesse mani, ci siamo decentrati oltre ogni immaginazione, sotto una pioggia battente di evidenze epistemologiche e scientifiche. E dopo tutta questa pioggia di evidenze sono nate come funghi intere generazioni di disperati, di arresi, di insoddisfatti, di perdenti, di sconfitti… in una parola, è nato il nichilismo.

Ci sono poche prese di posizioni concettuali che mi fanno più tenerezza del nichilismo: credo che esso non sia altro che la versione adulta (ma non per questo meno capricciosa) della delusione che provavamo da bambini quando scartando il regalo di natale scoprivamo che non era affatto quello che avevamo chiesto.
Esattamente nello stesso modo il nichilismo si è fatto strada tra gli adulti (soprattutto tra le persone di cultura), incapaci di vedere che non c’è bisogno di aggiungere “altro” alla consapevolezza di essere l’unica specie dell’universo conosciuto in grado di indagare, per quanto in maniera grossolana e semplificata, la meccanica e il funzionamento dell’universo stesso e di ciò che esso contiene: dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo, oggi abbiamo un’idea FUNZIONANTE di come stiano messe davvero le cose e di come si muovano gli ingranaggi del tempo. Un’idea fatta di numeri, di formule matematiche, di leggi fisiche, che però hanno il pregio di permetterci di formulare vere previsioni sul futuro.
Oggi, tanto per fare un esempio, sappiamo con una certa precisione quando avverrà l’apocalisse, ma le nostre conoscenze non hanno più niente a che vedere con San Giovanni evangelista. L’astrofisica ha preso il posto di Nostradamus e ci informa, dati alla mano, che l’apocalisse sarà fra circa 5 miliardi di anni, quando la nostra stella esaurirà le sue riserve di elementi necessari per la fusione nucleare che la tengono accesa e che la fanno brillare nell’oscurità del vuoto cosmico. Oggi sappiamo che il nostro rassicurante sole diventerà immensamente più grande (e immensamente meno rassicurante) e divorerà tutto, fino a tornare piccolo e insignificante: un sole freddo e spento, un sole morto. E, come se non bastasse ad essere abbastanza decentrati, l’astrofisica ci dice anche che la nostra non sarà altro che una della moltitudine galattica di apocalissi che quotidianamente fanno brillare l’universo e le sue galassie.

Niente paradiso, quindi. E niente vita oltre la morte.

Delusi? Bene, è ora di crescere e di smettere di credere alle favole.
Per quanto mi riguarda, invece, questo assoluto senza di marginalità e di insignificanza mi permette di valutare ciò che mi circonda nella giusta prospettiva: il solo fatto di essere qui, oggi, ci dice che siamo qualcosa di così storicamente improbabile, che il nostro ritenerci straordinari, per quanto ingiustificato, non deve stupire troppo.
Un po’ come si riterrebbe straordinario che lanciando 50 monete contemporaneamente ottenessimo croce per tutte e 50: è evidente come questa realizzazione non sia fisicamente impossibile, ma solo statisticamente improbabile**. E ora bisogna tenere presente che la nostra presenza sulla terra, come specie homo sapiens, è di gran lunga più improbabile del lancio contemporaneo di 50 misere monete: nessun essere dotato di ragione avrebbe scommesso alcunché sulla comparsa della vita (e men che mai della vita intelligente) su questo pianeta, che alla sua nascita era coperto di lava e roccia fusa. Un numero inimmaginabile di accidenti, in primis cosmologici, e poi geologici, chimici e infine biologici hanno dovuto verificarsi affinché Decartes potesse affermare un giorno che “Penso dunque sono”.

Eppure eccoci qui, a non capire un cazzo: invece di meravigliarci, con rinnovato spirito greco, di fronte a tanta improbabilità concretizzata, ci limitiamo a scuotere la testa, delusi dall’aver scoperto che l’universo non si prenda affatto cura di noi, e che non faccia di noi il suo fiore all’occhiello.
Ora sappiamo che l’universo non è come ce lo aspettavamo e che non c’è alcuna possibilità di vita dopo la morte. Inoltre possediamo la certezza che oggi l’unico pianeta in grado di ospitarci è questo, il nostro. E non perché non ce ne siano altri simili (la missione Kepler del NASA ne ha già trovati alcuni!), ma solo perché, al momento, non disponiamo ancora dei mezzi adatti per trasferirci su di essi.

Come diceva Carl Sagan: “Possiamo visitarli? Sì. Possiamo trasferirci? Ancora no”.

Quindi, avendo un solo pianeta sul quale vivere, lo dobbiamo tenere da conto. E non per il suo interesse, lui è un pianeta: è un grosso sasso che da circa 4,5 miliardi di anni gira su se stesso ed intorno ad una stella. Al nostro piccolo pianeta verde-azzurro, di noi, interessa veramente poco: la geologia ci insegna che la Terra attraversa periodicamente ere glaciali, con le calotte polari che arrivano a gelare tutto fino ai tropici, congelando qualunque cosa sul loro tragitto e passando sopra tutta la meravigliosa biodiversità che era riuscita a nascere nei precedenti millenni di clima più favorevole. E questo continuerà, fino alla morte del sole. Periodicamente verrà spazzato via tutto, o quasi.
La terra, fatemelo ripetere un’ultima volta, non si cura affatto di noi: la terra, semplicemente, ci ha prodotto. E ci si scrollerà di dosso senza tanti pensieri, alla prossima glaciazione (o molto prima, nel caso di un meteorite come quello che, forse, ha fatto estinguere i dinosauri).

Qual è la conclusione di tutto questo? La conclusione è che non dobbiamo prenderci cura del pianeta per il bene del pianeta, ma dobbiamo prenderci cura del nostro pianeta per il nostro stesso bene, perché abbiamo capito che non c’è nessun altro che possa prendersi cura di noi da fuori, dall’alto. Siamo noi, dal basso, che dobbiamo prenderci cura l’uno dell’altro, finendo un giorno col riuscire ad inglobare nella nostra opera tutto quel gigantesco sasso verde-azzurro che ci ospita, e che chiamiamo Terra.

Non guasterà, a questo punto, far presente che quasi tutti gli astronauti, dopo aver osservato la terra da fuori, piccola e sospesa nel vuoto cosmico, abbiano provato circa la stessa sensazione, con la quale hanno percepito la fragilità e al tempo stesso la bellezza del pianeta, inteso come un tutto:

Quando finalmente raggiungi la luna e ti volti indietro a guardare la Terra, tutte quelle differenze e quei caratteri nazionalistici iniziano a mischiarsi, a confondersi, e ti senti pervaso dalla sensazione che forse quello è veramente un unico mondo e ti chiedi come diavolo sia possibile che ancora non abbiamo imparato a viverci tutti insieme onestamente.
– Frank Borman

Abbiamo imparato molto sulla Luna, ma ciò che abbiamo imparato veramente è stato a proposito della Terra. Il semplice fatto che da quella distanza tu possa alzare il pollice e nascondere tutta la Terra dietro ad esso. Qualsiasi cosa che tu abbia mai conosciuto, tutti i tuoi affetti, i tuoi impegni, i problemi che affliggono la Terra stessa: tutto dietro al tuo pollice. E al tempo stesso percepisci quanto insignificanti tutti noi siamo realmente, e di conseguenza realizzi quanto siamo fortunati di possedere questo corpo e di essere capaci di godere d’amore qui, tra le bellezze della Terra.
– Jim Lovell

Più ci allontanavamo e più le dimensioni della Terra diminuivano. Alla fine raggiunsero le dimsioni di una biglia, la più bella che si possa immaginare. Quella sfera bella, calda e viva sembrava così fragile, così delicata, che se qualcuno l’avesse toccata con un dito l’avrebbe distrutta. Una vista del genere non può non cambiare un uomo.
– James B. Irwin

Improvvisamente, da dietro la Luna, in lunghi momenti di immensa maestosità, quasi al rallentatore, emerse una gemma luminosa di colore blu e bianco, una leggera sfera del colore del cielo, velata di bianco, che si alzava poco a poco come una piccola perla sospesa su un mare nero di mistero. Impiegai più di un momento per realizzare appieno che quella era la Terra… era casa.
– Edgar Mitchell

E tutto questo esalta la figura dell’uomo, più che condannarla, con buona pace dei nostri amici imbronciati, i Nichilisti.

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Note:

*Sempre in chiave scientifica, chiaramente: è il metodo sperimentale che ha strappato la conoscenza dalle grinfie del misticismo.
**Per la precisione, la probabilità che quel lancio straordinario avvenga è di 0.5 elevato alla 50, cioè un numero molto vicino a zero, ma ben lontano da essere esattamente zero, cioè impossibile. In ogni caso, per avere un’idea dell’improbabilità che questo lancio avvenga, basta considerare che se facessimo un tentativo al secondo dovremmo aspettare circa la vita dell’universo (13,7 miliardi di anni) per osservare qualche successo.

Giada, artista emergente

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SCENA 1.

Giada ferma la lingua e riprende a muovere la testa su e giù, a labbra strette. Ha messo anche il rossetto rosso, che darà il tocco di classe finale alla sua opera, lasciando un preciso alone purpureo alla base del cazzo, quando avrà terminato di fare quello che sta facendo: compito disgustoso, ma indispensabile per la riuscita del suo progetto. Si aiuta anche con le mani: accortezza fondamentale per attirare su di sé tutte le attenzioni dell’uomo che sta disteso sul suo letto.
Si crede predatore, l’idiota.
Si era sentito splendido e brillante per tutta la sera, senza fiutare minimamente che, ora dopo ora, non aveva fatto altro che eseguire esattamente quello che lei gli chiedeva: l’ora dell’appuntamento, il vestito da indossare, i colori da abbinare, il ristorante… e ora, che crede di avere fatto breccia nella tana di lei, di esserle finalmente entrato dentro a tutti gli effetti, proprio ora si renderà conto di quanto poco in là avesse visto il suo occhio da cucciolo di predatore.
Fin dall’inizio, la preda era sempre stato lui.
Giada apre gli occhi, e rallenta il suo movimento: vuole che lui la guardi, vuole stregarlo, fargli credere che fin dall’inizio della serata il suo unico desiderio sia stato quello di succhiarglielo fino in fondo, avidamente, fino alla fine. Dopo pochi secondi, e ne era certa, lui apre gli occhi e la guarda intensamente: la fissa, a labbra socchiuse, e le afferra i capelli dietro la testa, con violenta delicatezza.
Dopo poco lei sente la carne che ha in bocca che inizia a pulsare, e vede la sua vittima reclinare la testa indietro, strizzando gli occhi nella smorfia di massimo godimento che il corpo ci concede: ci siamo quasi. Dopo un attimo le mani di lui le premono vigorosamente la nuca, per spingerle in cazzo fino in fondo alla gola, più dentro possibile, e lei aggrada con piacere quella volontà, consapevole di cosa significhi… e infatti poco dopo il prezioso seme inizia a sgorgare caldo e lei è attenta a non ingoiarlo o a farlo fuoriuscire dalla bocca: le serve tutto, per il suo ambizioso progetto.
Ancora qualche secondo e le mani di lui lasciano la presa. Giada si sporge fuori dal letto e da sotto tira fuori un vasetto di vetro, in cui depone tutta la crema bianca appena prodotta dalla sua vittima, chiudendolo poi a dovere col coperchio dorato. Una specie di marmellata, le viene da pensare. Ripone il vasetto sul comodino accanto alla lampada accesa, unica fonte di luce della stanza, e si mette a guardare il corpo della sua vittima. La sostanza con cui lo aveva drogato, al ristorante, aveva sortito il suo incredibile effetto ancora una volta: è come se al momento del coito il cervello della preda si congelasse per sempre in quella specie di impotente fremito convulsivo che caratterizza l’apice dell’amplesso, mai più capace di tornare alla realtà. A guardarlo così, ora, senza più nemmeno la facoltà di parlare, non sembra più nemmeno un uomo, non assomiglia per niente al mito tanto decantato del re dei predatori, il cacciatore per eccellenza. Non che “uomo” lo fosse mai stato tanto, in realtà. Un attimo dopo lo sguardo di lei si sposta con precisione geometrica sul cazzo, ormai privo di forze: lo tira su, con mano ferma, e lo prende nuovamente in bocca, curandosi di tenerlo tutto dentro, escluse le palle. Poi, con forza, stringe i denti e lo strappa via, come fosse un frutto maturo, prossimo a cadere dall’albero. A quel punto tira fuori da sotto il letto un piatto, un grande piatto bianco e pesante, e ci lascia cadere sopra il moncherino, con qualche inevitabile schizzo di sangue che contribuisce a puntinare qua e là di rosso il resto del piatto, altrimenti pulito.

SCENA 2.

Si sente una voce femminile, una di quelle tipiche voci che hanno le guide ai musei: alta e squillante, monocorde, didascalica.
“Seguitemi da questa parte, ora. Ci aspetta l’opera di Tigre di Giada, con tanto di attore in carne ed ossa, prestatosi gentilmente ad interpretare il protagonista della scena per tutta la durata dell’esposizione. La riuscita dell’opera, come potrete giudicare voi stessi, è dovuta in gran parte all’abilità dell’uomo nell’interpretare il suo ruolo.
Eccoci, ci siamo tutti? Bene, continuiamo.
In questa sala, come potete vedere, l’artista ha ricreato gli atti finale di un delitto, un delitto violento e passionale. In quella che vuole essere solo una normale camera da letto l’artista, fanese di nascita ma milanese d’adozione, ha inserito un uomo nudo e sporco di sangue, in preda ad una sorta di incoscienza delirante e privo del pene, strappato via e deposto su un piatto bianco sul comodino, accanto al letto. Come potete vedere, accanto al piatto c’è anche un vasetto di vetro con dentro del liquido bianco, che simboleggia lo sperma dell’uomo, della vittima, e sull’etichetta del vasetto potete leggere chiaramente “Incubo, alba”… purtroppo, o per fortuna, dipende da quanto vi piaccia fantasticare, questo è un particolare che l’artista non ha mai voluto spiegare in maniera univoca, limitandosi a dirci che intendeva racchiudere in due parole esemplari una certa sensazione, ovvero che dopo gli incubi, per quanto orribili, alla fine giunge sempre l’alba a svegliarci… e a tranquillizzarci, aggiungo io, che sono un’inguaribile ottimista! Oppure potrebbe essere l’anagramma di qualcosa, forse di un nome… ma questo non scrivetelo sui vostri blocchi di appunti, altrimenti mi farete perdere il posto, eh eh eh.
Prestate attenzione, ora, a quella sorta di alone rosso che l’artista ha disegnato intorno al pene della vittima, o meglio del carnefice, catapultato improvvisamente nel ruolo di vittima… un alone rosso, e rotondo, come a volerci dire che è proprio quel particolare la chiave interpretativa di tutta l’opera, come se proprio l’atto di strappare via il pene, ovvero la parte colpevole della carne, potesse ridare dignità alla figura dell’uomo. Qui Tigre di Giada ci sta urlando che l’unico vero uomo è l’uomo che non possiede ciò che lo rende tale, arrivando così a privare la parola “uomo” del suo contenuto più naturale, quello condiviso da tutti, anche dalle altre specie animali. Infine, l’ultimo particolare su cui voglio attirare la vostra attenzione prima di passare oltre, è la cura che l’artista ha impiegato nel ricostruire la stanza da letto, prestando attenzione al conferirle omogeneità nell’utilizzo dei colori. Osservate infatti come i tessuti e l’arredamento riprendono tutti gli stessi toni caldi: il mogano, il parquet, il color sabbia delle lenzuola, il rame del tappeto. Perfino i vestiti dell’uomo, gettati lì in terra, ai piedi del letto, col loro colore marrone scuro si intonano al resto dell’ambiente domestico. Come a voler simboleggiare che l’uguale chiama l’uguale, e mai il diverso. Qui l’artista ribalta l’interpretazione psicologica del fenomeno magnetico dell’attrazione degli opposti: Tigre di Giada ci vuole comunicare che il male attrae solo altro male, per quanto di forme diverse.
Bene, su Tigre di Giada, artista emergente dall’underground artistico italiano contemporaneo, c’è veramente poco altro da dire, se non qualche informazione di carattere più puramente personale, ma tornerò su questi aspetti solo se ci avanzerà del tempo alla fine della visita: ci sono ancora molte altre cose da vedere. Andiamo avanti, seguitemi”.

A queste parole il gruppo di visitatori inizia a spostarsi lentamente, seguendo la guida nella sala adiacente. Solo una persona rimane indietro: una ragazza sulla ventina, alta, bionda, e con grandi occhi color nocciola, elegante e raffinata. Rivolge l’attenzione al titolo dell’opera, “Invidia del pene”, e le labbra le si piegano in uno strano sorriso amaro, ma compiaciuto.

Alice nel Paese delle Meraviglie: molto più che un cartone, un cartoncino

alice

Ormai è passata più di mezz’ora da quando abbiamo iniziato a deglutire la saliva amara, succhiando il nostro particolare francobollo colorato. Finalmente avverto una piacevole sensazione di calore che mi pervade e mi abbandono su una sedia fermandomi un attimo a guardare cosa succede intorno a me: sono in compagnia della mia insostituibile sorellina e di G. e siamo appena usciti dal Tate Modern di Londra, a causa di un non ben definito bisogno di aria. Loro due sono entrati nel bar alle mie spalle, e io mi sono seduto sulle sedie esterne, al freddo. Ha anche smesso di piovere, e tutto è stranamente quieto.

Dopo un po’ chiudo gli occhi per rilassarmi e succede incredibilmente che continuo a percepire, nitide, le immagini che normalmente avrebbero dovuto essere sostituite da un omogeneo colore nero, il colore che si vede abitualmente ad occhi chiusi. Apro nuovamente gli occhi e non avverto la tipica sensazione di passare dal buio alla luce, perché anche un attimo prima per la mia mente era come se stessi guardando qualcosa. Quindi non un netto stacco, ma una sorta di passaggio sfumato, due modi diversi di poter percepire immagini visive: uno ad occhi aperti, più concreto, più normale, e uno ad occhi chiusi, più etereo, più strano. Dico strano perché mentre ad occhi aperti la sensazione è ancora quella di percepire un mondo normale, ad occhi chiusi si avverte immediatamente la libertà creativa del proprio cervello, che inizia a formare tutto un intrico di forme e colori a partire dall’ultima immagine osservata ad occhi aperti: linee colorate che si rincorrono ed incastrano, motivi geometrici che mutano caleidoscopicamente in un continuo divenire di nuove forme e colori, e tutto accompagnato da una sorta di ritmo di fondo, una specie di profondo battito pulsante. Evidentemente la parola “realtà” comincia a farsi incerta, inafferrabile, dato che si avverte in maniera chiara e distinta che è solo il nostro sistema percettivo che ci informa di come sia fatto il mondo esterno, di come ci appaia. Quindi ora che abbiamo tutte le percezioni distorte risulta distorta anche la realtà: quella realtà con cui abbiamo convissuto per tutta la vita, di punto in bianco viene sostituita da un’altra realtà, che a partire dagli stessi input viene manipolata arbitrariamente dal proprio cervello per formare qualcosa di assolutamente unico e irripetibile, sorprendentemente nuovo ed eccitante.
Riapro gli occhi e cerco di alzarmi: devo dire a mia sorella e a G. di chiudere le palpebre per verificare se anche a loro succede quello che sta succedendo a me, ma faccio appena in tempo ad alzarmi dalla sedia che mi sale un repentino conato di vomito e mi ritrovo piegato a espellere bile, con mia sorella che mi chiede “Come stai? Tutto bene?”  Ho appena vomitato, eppure sto benissimo, sono sfasato e felice “Guarda quel palazzo a vetri, è assurdo”, e glielo indico, vomitando di nuovo.
Quando mi rialzo, pochi secondi dopo, mi basta uno sguardo rapido per capire che ormai il viaggio è iniziato: sono nel Paese di Alice e non mi resta altro da fare se non godere delle sue Meraviglie, accompagnato dai miei due preziosissimi compagni di viaggio.

Essendo noi umani creature fondamentalmente visive*, chiaramente la distorsione avvertita con maggiore intensità è proprio quella visiva: qualsiasi cosa intorno a noi possiede una vita propria, una fondamentale concretezza che mai avevamo notato. Esempio emblematico sono i vetri, gli specchi e le pozzanghere: i loro allucinanti riflessi sembrano possedere una propria esistenza indipendente dal fatto di essere “solo” un riflesso di qualcosa di reale. Anche i semplici riflessi appaiono tangibili, reali, dotati di sostanza: verrebbe voglia di dire che non sono affatto dei semplici riflessi, ma che sono delle cose vere, che esistono.

D’un tratto ecco presentarsi un’altra sensazione che pervade me e mia sorella, ma non G.: si tratta di una sensazione di gioia, di calore, di felicità, focalizzata sulla parte meno nobile del nostro corpo, e cioè il buco del culo. Lo si avverte felice, appagato di essere l’orifizio finale di tutto. Una specie di gioia legata al solo fatto di possedere un ano in grado di dilatarsi e di defecare al momento giusto. Tutto ciò ha poco a che fare con la fase anale di freudiana memoria, è più una sorta di inspiegabile felicità che scaturisce dai muscoli dell’ano, di genuina gioia anale… e la causa è solo ed esclusivamente la merda. Sulla questione ci abbiamo riflettuto in due, sia durante che dopo il viaggio, e il miglior modo di descriverla che abbiamo trovato è: “felicità di merda” (e tutto ciò coincide anche con il primo utilizzo interamente positivo della specificazione “di merda” di cui io abbia mai avuto esperienza, anche indiretta).

Una volta capito che è proprio questa la sensazione che entrambi stiamo provando decidiamo all’unanimità di tornare verso casa, ma per farlo abbiamo bisogno di sapere come tornarci e quindi chiediamo indicazioni. È il nostro primo contatto con le altre persone, le persone normali, e si rivela più incredibile di quello che ci aspettassimo: ogni singola persona appare mostruosamente pittoresca, al contempo grottesca e comica, troppo assurda per essere vera… eppure eccoli tutti lì, vivi e veri, davanti ai nostri occhi: il loro modo di camminare, di parlare, di vestire, di ridere, di guardare l’orologio… ogni cosa che fanno la fanno in maniera atipica, quasi forzata, come se seguissero un copione assurdamente complicato scritto da un autore di spicco del frangente più estremista del teatro d’avanguardia. Non hanno senso. Nessuno di loro ha senso.

Eppure non sono loro: siamo noi.

E lo sappiamo benissimo, è questo il punto: per tutta la durata del viaggio continuiamo a sapere di essere nello stesso mondo di sempre, reso diverso solamente dalla deformazione indotta dei nostri canali percettivi… eppure è tutto talmente reale, talmente assurdo e al contempo convincente che si finisce per rimanere per ore in uno stato di passiva contemplazione di tutto, del mondo intero. A tratti ci sono anche dei momenti di completa lucidità, in cui tutto sembra essere tornato normale, e quindi ci si ritrova in silenzio, ad osservare con l’occhio attento delle prede tutto quello che ci circonda, illusi di aver ritrovato un barlume di controllo. Poi, in un attimo, le pareti cominciano a non sembrare più proprio normali, e anche il pavimento inizia nuovamente a formare sotto i nostri occhi strane forme geometriche che vanno e vengono… “È tutto un po’ strano”, dice G., racchiudendo in così poche parole l’essenza della sensazione che si prova per tutta la durata del viaggio: il mondo a tratti sembra quello di sempre, eppure no… c’è sempre qualcosa che non va, qualcosa di ineffabile, di misterioso, che rende l’intera propria vita percettiva (e quindi mentale) piacevolmente aliena e inusuale. Come cazzo fa un muro ad essere inusuale? Provare per credere.

Durante il viaggio in metro continuiamo ad osservare tutta una florida fauna al limite del mitologico: individui troppo onirici per essere veri, eppure ben saldi di fronte ai nostri occhi stupiti. Ho motivo di credere che la sensazione sia affine a quella di un naturalista che sbarcasse per la prima volta in un mondo nuovo, popolato da creature mai viste prima: sì, Darwin deve aver avuto la stessa identica sensazione quando sbarcò per la prima volta alle Galapagos! Ad un certo punto la metro attraversa un tratto allo scoperto e in quel momento esce il sole, un bel sole caldo, che fa risaltare tutti i colori che ci circondano: in particolare notiamo la vividezza dei colori brillanti e mia sorella diventa improvvisamente felice (di una felicità genuina, a 360 gradi) a causa della “verdezza” del colore verde di uno dei tubi che le persone utilizzano per tenersi saldi. È di un verde talmente acceso, di un verde talmente brillante, di un verde talmente VERDE che mia sorella è felice di poter essere lì ad osservarlo: non serve altro, per la sua felicità, della verdezza di quel verde. Non dimenticherò mai il suo volto eccitato e gioioso, al limite del comprensibile. E ogni volta che ripenso alla causa di tale felicità (la verdezza del verde) mi ritrovo immancabilmente a sorridere: non potrò mai più guardare qualcosa di verde senza ripensare alla gioia di mia sorella e quindi rivivere una parte di quella felicità. Epico.

Tale è il livello di novità durante la percezione del mondo, che si fa fatica a descriverlo. Ed è una difficoltà che non sopravviene solo una volta che il viaggio è terminato, ma è una difficoltà frustrante che ci accompagna per tutta la sua durata: le percezioni visive uditive e tattili si accavallano formando nella mente delle “immagini” talmente complesse e particolareggiate, e insieme mutevoli, che ogni tentativo che facciamo di provare a descriverne agli altri anche una minima parte risulta immediatamente insoddisfacente, lasciandoci di punto in bianco senza parole, in silenzio, arresi al fatto che comunicare verbalmente una realtà non verbale è una sfida che non possiamo vincere, che nessuno potrà mai vincere**.

Infatti chi ci guarda da fuori ci giudica distratti, distanti, non propriamente presenti a noi stessi… ma il punto è un altro: la nostra attenzione è talmente attratta dalla moltitudine di cose nuove, mai viste prima, che il dover prestare attenzione ad una voce che parla passa immediatamente in secondo piano se confrontato con la voglia di prestare attenzione a tutto ciò di cui è popolato il mondo che ci circonda: ogni capello di chi ci parla, ogni mattone del muro più vicino, ogni pozzanghera, ogni nuvola… letteralmente OGNI cosa che ci circonda risulta incredibilmente affascinante e aliena: quelle che erano sempre state normali fantasie sui tessuti diventano improvvisamente delle fantasie dettate dall’estro di un genio artistico, e un identico giudizio entusiasta viene rivolto alle imperfezioni della strada, stranamente ordinate e geometriche, alle increspature di una parete verniciata, stranamente vive, alle venature di un braccio, completamente perfette… il tutto sempre accompagnato dalla sensazione accennata poco sopra, quella legata alla gioia della merda (e quindi si capisce che tale sensazione non combacia affatto con la voglia di defecare, dato che nessuno di noi ha mai avuto intenzione di andare in bagno a liberarsi: è una sensazione piacevole che ci accompagna, ecco tutto). Come potreste prestare attenzione a qualcuno che vi chiede qualcosa quando, all’improvviso, TUTTO il mondo vi appare formato da minuscoli numeri colorati? Come quei dipinti costituiti da una moltitudine di puntini colorati, dai quali emergono figure ben definite, distinte… solo che questa volta non è un’immagine in due dimensioni, come un paesaggio che emergesse dai puntini, ma è il mondo intero che emerge da una moltitudine di piccolissimi numeri colorati e addossati gli uni sugli altri in maniera perfettamente coerente. E questo è solo uno dei tanti flash che ho avuto, che si accavallano continuamente l’uno sull’altro senza soluzione di continuità, in un incessante divenire, la cui velocità di cambiamento è talmente elevata che provare a descriverlo in diretta è praticamente impossibile.

299103_10200448323305963_35888783_nD’un tratto eccolo, il colpo di genio: guardo mia sorella e le dico “Ho capito! Finalmente so perché i Pink Floyd si chiamano così”. Lei mi rivolge lo sguardo e mi sorride eccitata, aspettando il responso. “È la gioia della merda, sister. Tu come disegneresti la sensazione che ci sta accompagnando dal museo?”  le domando. E lei mi risponde: “Con una cacca che ride, felice” “Che ne dici di una cacca rosa?”  “Perfetto”. Il fluido cui si riferirono i ragazzi di Londra è proprio la merda, ora lo so. Ora ne sono sicuro. E il rosa è dovuto alla gioia: quale colore può racchiudere la felicità meglio del rosa? Nessuno, evidentemente. Pink Floyd: fluido rosa, merda rosa, merda felice.

Usciamo finalmente dalla metro e ci dirigiamo a piedi verso l’ostello in cui alloggiamo, accompagnati dall’immancabile G. Nonostante il passare del tempo sembra impossibile abituarsi al fatto che le proprie percezioni siano distorte e quindi, liberi sulle nostre gambe, continuiamo il nostro viaggio incantato che ci separa da “casa” e rimaniamo assorti (complice un bel sole caldo) a contemplare le case, i tetti, i marciapiedi, le piante, le automobili, le sirene, gli gnomi, i nani, i mostri: è tutto normale, eppure è tutto indescrivibilmente eccitante, bellissimo. E viviamo tutto quello che accade non come se fossimo anche noi parte del mondo, ma lo viviamo come si potrebbe vivere un’estrema esperienza cinematografica fatta di ologrammi ed effetti speciali in 3D: tu lo sai che non sono veri, eppure sembra proprio che quel sasso ti colpirà, a meno che tu non chini la testa in fretta: e più l’effetto è realizzato a dovere, più vengono ingannate le nostre percezioni, e più saremo portati a “schivare” il sasso in maniera istintiva, non ragionata. Ecco, nel Paese delle Meraviglie è la stessa sensazione di non-partecipazione, ma amplificata a dismisura: ci si sente spettatori stranamente olografici di un mondo non propriamente reale, costruito ad hoc per sorprenderci da tutte le direzioni ed in tutti i modi possibili.

Per entrare in ostello passiamo attraverso il solito stretto corridoio che separa il nostro edificio da quello adiacente e lì ci immobilizziamo: quel corridoio strettissimo, al limite del soffocante, ora è largo, spazioso, quasi troppo. E quindi restiamo fermi, a cercare di capire cosa ci sia di diverso nella nostra percezione da farcelo apparire così diverso rispetto al solito: dall’interno del corridoio, guardando verso l’entrata o l’uscita, si percepisce distintamente una sensazione di tanto spazio disponibile, come se i muri verticali fossero improvvisamente incurvati a formare uno spazio più ampio e tondeggiante. Poi basta girare la testa verso il muro ed invece quello è lì, ad un palmo dal proprio naso, costituito da strani mattoni rossi e pelosi, pelosissimi: esattamente come quando si zooma una superficie apparentemente liscia e si iniziano a distinguere le sue increspature ed imperfezioni, anche ora abbiamo l’impressione di poter vedere in alta definizione, di poter distinguere in maniera immediata le imperfezioni dell’argilla cotta e di vederne così la struttura fine, microscopica, accidentata, che dà appunto l’idea di essere ricoperta di peli morbidi, quasi come se fosse un mattone di peluches morbido alla vista, eppure duro al tatto.

Finalmente entriamo in ostello e saliamo le scale che ci portano al secondo piano: dopo aver percorso la prima rampa sembra che la gravità non punti più verso il basso, ma che punti un po’ di lato, verso l’esterno della curva che compiamo per salire le scale… che strano. Arriviamo nella sala del secondo piano e ci appartiamo in un angolo della saletta relax, mantenendo le dovute distanze dagli altri presenti: è già difficile comunicare tra noi tre, che siamo tutti insieme nel mondo di Alice… figuriamoci descriverlo agli altri, abitanti del mondo normale. Impossibile.

Dopo qualche minuto la mia preziosa sorellina mi si avvicina e mi dice con aria preoccupata che le sue sensazioni non sono sempre positive, soprattutto quando si trova a doversi relazionare con le altre persone: a tratti sta male, mi dice che non si sente completamente a posto, che prova qualcosa di simile al disagio, “Come se ci fossero qui mamma e papà”, mi dice. Questa frase mi fa capire al volo cosa intende, e fortunatamente riesco subito a focalizzare l’attenzione sulla medesima sensazione che anche io stavo provando da tempo: “Ari, ho la stessa sensazione da quando siamo arrivati in ostello. Chi cazzo è sta gente che mi gira intorno? E perché mi guardano? Conosco le risposte a queste domande, eppure il disagio permane, inalterato”. “Ah quindi lo senti anche tu?!?” e mi abbraccia fortissimo, felice di non essere lei, quella strana. Qui è tutto strano, incredibilmente strano.
Distesi sui morbidi puff sparsi un po’ ovunque nella sala, capiamo che per trovarsi nel Paese delle Meraviglie non è tanto importante che tu sia al Tate Modern o dentro ad un gabinetto di un autogrill: quando le tue percezioni sono distorte, sballate, ti basta poco, pochissimo, per sorprenderti a fissare il mondo con occhi diversi, con rinnovato e inappagabile stupore. Bastano le proprie mani, o il colore verde…
Ad un certo punto mia sorella si stende vicino a me, cercando di frenare un po’ la sua vulcanicità di energia interminabile e io l’abbraccio, nel tentativo di rasserenarla con qualche carezza da fratello maggiore e protettivo: è in grado di sprigionare più energia lei in mezz’ora che io in mezza giornata, non ci si crede. Poi la mia esplosiva sorellina gioca il jolly e conferisce una colonna sonora ai nostri pensieri caleidoscopici e mutaforma: dal suo portatile inizia a farsi largo The Dark Side Of The Moon… perfetto. Assolutamente perfetto.

Siamo tutti e tre lì, silenziosi, assorti nei nostri pensieri autocritici: ormai si è in qualche modo affievolita, o comunque sta lentamente diminuendo tutta la parte del viaggio legata alla distorsione della percezione, e quella sensazione viene man mano sostituita da qualcosa di più riflessivo, di ponderato, di personale. Ad un tratto, mentre mi ritrovo a fissare quelle strane lampade formate da alcuni neon e da alcuni specchi incrociati (realizzando che più una mente è profonda e più il Paese delle Meraviglie gli apparirà meraviglioso), mia sorella mi stringe forte e inizia a piangere, con gli occhi chiusi. Io sono stranamente rilassato invece, nonostante le sue lacrime: ho il mio filo del discorso da seguire e quindi mi limito ad abbracciarla fortissimo e a coccolarla, accarezzandole i capelli e asciugandole le lacrime. Poi ci ripenso, e mi dico che provare la sensazione del pianto potrebbe essere fantastico, e verbalizzo subito questo pensiero: “Cazzo sister, vorrei piangere anche io ora, qui con te” e, testimone G., inizio a piangere disperatamente pochi secondi dopo. Un pianto genuino, disperato, risolutivo: uno dei pianti più disperati di cui abbia memoria, arrivato così all’improvviso, senza preannuncio, e tale da farmi singhiozzare violentemente e produrre una quantità di muco che raramente si è vista produrre da un solo naso. Forse Cyrano… no, nemmeno lui reggerebbe il confronto. Dopo alcuni minuti di disperazione totale mi calmo un po’, quanto basta per riuscire a deglutire e parlare e mentre nella mia mente si arrovellano figure di conigli bianchi, muscolosi e deformi, pieni di artigli e di denti affilati, sfumati qua e la di blu metallico, le dico: “Sister, ora so una cosa importante, e devo riuscire a dirtela bene. Se nel momento più tragico della mia vita io dovessi scoppiare nel pianto più disperato possibile, manifestazione ultima del mio dolore, so che l’unica persona al mondo che potrebbe capire quello che sto provando saresti tu”. E abbiamo continuato a piangere e ridere per alcuni minuti, alternando felicità e disperazione, tenendoci stretti e saldi l’uno all’altra finché non ci accorgiamo che anche G. aveva iniziato a piangere silenziosamente accanto a noi, per cui abbiamo istintivamente allargato le braccia e trasformato un pianto doppio in un pianto triplo, un pianto comune. “Hai detto una cosa bellissima Lu’” (anche lui ha una sorella, tra parentesi), mi dice G., e io non so perché scoppio a ridere, felice.

Trascorre un po’ di tempo e il pianto passa, ci passa a tutti, complice anche il fatto che sta per arrivare M., sorella di G., a salutarci. Poco prima del suo arrivo Arianna e G. escono a fumare e io resto solo, in contemplazione silenziosa e accompagnata dalla musica. La mia attenzione si concentra su un altro pensiero che ho da tempo, che riassume un po’ la mia concezione del rapporto uomo-donna, e del dolore: ogni rarissima volta che la vita mi sembra al limite del sopportabile, che quasi quasi verrebbe da pensare che non ne valga la pena, mi sforzo di figurarmi come sarebbe la mia vita se fossi stata una donna, abituata una volta al mese al completo disagio fisico, e spesso al dolore snervante… e tutto questo senza fare menzione del fatto che chiaramente avrei dovuto scontrarmi quotidianamente con la necessità di dimostrare che valgo molto di più dei miei colleghi maschi, affinché venga riconosciuto che valgo tanto quanto loro. Questo pensiero negativo, paradossalmente, mi aiuta nei momenti peggiori: dico a me stesso “Ricorda che poteva andare peggio Lu’, molto peggio… avresti potuto avere il ciclo, ora”. E scoppio nuovamente a piangere, colpevole solo di aver pensato che a volte la mia vita mi sembra insopportabile quando c’è chi, nei miei panni, vedrebbe solo rose e fiori. Prendo al volo il cellulare e compongo un messaggio, destinato a mia sorella, che sta fumando due piani sotto: “Sei il mio esempio di Forza: quando cerco uno stimolo per tenere duro, io penso sempre a te”, e mi metto a contemplare, in attesa che lei e G. tornino su e che il viaggio finisca, bellissimo e devastante.

_____NOTE_____________________________________________________
*Per gli antichi Greci, iniziatori della filosofia e della scienza, il verbo “conoscere” condivide la radice col verbo “vedere”, ce lo ricorda anche l’enunciato di esordio del primo libro della metafisica di Aristotele: L’uomo tende per natura alla conoscenza.
**Sull’apparente concretezza del linguaggio, data dal fatto che lo utilizziamo quotidianamente per vivere e confrontarci coi nostri simili, essa risulta semplicemente dal fatto che cultura per cultura gli uomini si siano abituati ad attribuire etichette particolari a certi oggetti, a certi colori, a certi suoni, a certi odori, eccetera. Ma è risaputo che non si può descrivere un sapore se non tramite un altro sapore simile, o un odore tramite un altro odore che lo ricordi molto bene. È la classica questione del comunicare verbalmente una realtà non verbale. Chiaramente se ci fosse una cultura che avesse costruito e affinato il proprio linguaggio nel Meraviglioso Paese di Alice avrebbe lo stessa illusione che “il linguaggio funzioni per davvero”, ma basterebbe una piccola percezione distorta, nuova per quella cultura linguistica, da rendere muti tutti i suoi possessori, impossibilitati a descrivere quello che di cui stanno facendo esperienza.